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Marzo

- 2021 -

STALKING OCCUPAZIONALE – VITTIMA DI ATTI PERSECUTORI SUL LUOGO DI LAVORO: TUTELA AMMINISTRATIVA E PENALE

Si parla di “stalking occupazionale” quando l’atto molesto o persecutorio è messo in atto dal datore di lavoro o dai colleghi. Il reato di stalking, infatti, è un reato comune e come tale non richiede l’esistenza di interrelazioni specifiche tra il soggetto agente e la vittima (es. relazione sentimentale). Il motivo delle condotte illecite può quindi trovare origine anche nei luoghi e nei rapporti lavorativi, spesso superando gli stessi ed incidendo sulla vita privata della vittima. Le condotte punite sono la molestia o la minaccia e la pena consiste nella reclusione, da un anno a sei anni e sei mesi, salvo che il fatto costituisca più grave reato.

Pochi però sanno che la stessa legge, che ha introdotto nel nostro sistema il reato, ha introdotto, a tutela della vittima, anche un “procedimento amministrativo” (art. 8 D.L. n.11/2009). Lo stesso prevede che, fino a quando non è proposta querela, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando richiesta al Questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. Trasmessa, senza ritardo, la domanda al Questore questo assume, se necessario, informazioni dagli organi investigativi e sente le persone informate dei fatti. Se ritenuta fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Se del caso, il Questore adotta i provvedimenti in materia di armi e munizioni.

Questa procedura, se espletata prima della presentazione della querela, e in caso di successiva condanna penale, ha l’effetto di aumentare la pena inflitta all’imputato, successivamente condannato, poiché già ammonito senza successo.

PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

Come detto, se non si è ancora presentata denuncia-querela, si può interpellare il Questore ed avviare il c.d. procedimento amministrativo (art. 8 D.L. n. 11/2009) che, diversamente da quello penale (art. 612 bis Codice Penale), non si conclude con una sentenza di condanna ma con un decreto di ammonimento.

Questo procedimento si muove su un piano cautelare e preventivo, diverso da quello del procedimento penale, di accertamento della responsabilità.

Il decreto di ammonimento non presuppone l’acquisizione di prove, tali da poter resistere in un giudizio penale avente ad oggetto un’imputazione per il reato di atti persecutori, bensì la sola sussistenza di elementi dai quali sia possibile desumere un comportamento persecutorio o gravemente minaccioso, che possa degenerare e preludere a condotte costituenti reato.

Quanto sopra è quanto precisato dal T.A.R. di Trento, Sez. I, con provvedimento n. 56 del 08.05.2020 proprio in un caso di stalking in ambiente lavorativo. Nello stesso si legge: “ai fini dell’ammonimento, non occorre che si sia raggiunta la prova del reato, bensì è sufficiente far riferimento ad elementi dai quali sia possibile desumere, con un sufficiente grado di attendibilità, un comportamento persecutorio che ha ingenerato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia e di paura.”

Il Questore ha quindi un potere valutativo, ampiamente discrezionale, del quadro indiziario e giudica la verosimiglianza che, ovviamente, può essere contestata dal presunto stalker avanti il Giudice Amministrativo, il quale però può solo giudicare l’eventuale “manifesta insussistenza dei presupposti di fatto” che legittimano l’adozione del provvedimento o la “manifesta irragionevolezza e sproporzione” del provvedimento (cfr. T.A.R. Salerno, Sez. I, sentenza n.683 del 30.04.2018).

La norma non impone di avvisare il soggetto, nei confronti del quale il Questore ha avviato un procedimento amministrativo, ma soltanto di avvisarlo dell’emissione del decreto di ammonimento. Ciò ha generato contenzioso e contrasto giurisprudenziale per cui il Consiglio di Stato, con la pronuncia n.2108 del 29.03.2019, ha chiarito che “… ove non sussistano specifiche ragioni di urgenza da indicare nell’atto, l’Amministrazione deve dare comunicazione dell’avvio del procedimento al soggetto destinatario dell’ammonimento e ciò in quanto, pur presentando il procedimento de quo dei tratti di specialità, in assenza di espressa deroga, devono trovare applicazione le garanzie di partecipazione procedimentale e deve essere concessa la possibilità all’interessato di palesare il proprio punto di vista”.

Tornando alla vicenda esaminata dal T.A.R. di Trento, la stessa riguarda un provvedimento di ammonimento, emesso nell’ambito di un rapporto lavorativo estremamente conflittuale tra il ricorrente, datore di lavoro ammonito, e la contro interessata, dipendente dell’impresa del medesimo.

Nel contesto conflittuale, giudicato dal Tribunale, è emerso che la dipendente è stata destinataria di sanzioni di tipo disciplinare (detrazione di ore lavorative) conseguenti all’asserito non corretto svolgimento di prestazioni lavorative, comportamento che il Questore aveva ritenuto persecutorio.

La misura dell’ammonimento è stata richiesta dalla lavoratrice nei confronti del ricorrente, per i comportamenti ritenuti persecutori e minacciosi, reiterati nel tempo, posti in essere da quest’ultimo, che, secondo quanto rappresentato, le avrebbero procurato un grave stato d’ansia con alterazione delle proprie abitudini di vita. Il provvedimento impugnato dal datore di lavoro si riferisce, in particolare, ad un reiterato comportamento aggressivo e pesantemente molesto (urla e insulti di bassissimo spessore nonché contusioni provocate dal datore di lavoro alla dipendente), che in alcuni episodi ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di soggetti, che hanno assistito ai fatti e confermato quanto descritto dalla lavoratrice.

Il T.A.R. Trento ha confermato la legittimità del decreto di ammonimento e, preliminarmente, ha affermato il principio per cui “Il reato di atti persecutori si configura come un reato comune che può essere commesso da chiunque e non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive e specifiche, affettive, sentimentali o comunque qualificate, tra il soggetto agente e la vittima. Ne è conferma la chiara lettera dell’art. 612 bis, comma 2, c.p.”.

La sentenza, nelle sue premesse, ha ritenuto quindi ipotizzabile il reato stalking anche nell’ambiente lavorativo, facendo seguito ad una precedente sentenza del Consiglio di Stato sez. III (sentenza del 21.04.2020 n.2545) per cui “L’emissione dell’ammonimento da parte del questore ha natura preventiva e può fondarsi su elementi istruttori idonei a rappresentare, in via prognostica, la potenziale pericolosità delle condotte prodromiche del reato di stalking. Invero, il comportamento molesto costituisce un minus – in prospettiva di progressione aggressiva – rispetto alla minaccia, già autonomamente suscettibile di tutela mediante lo strumento amministrativo contemplato dall’art. 8, comma 1, d.l. n. 11/2009, convertito con l. n..38/2009, proprio al fine di evitare la degenerazione in condotte penalmente rilevanti nella cornice degli atti persecutori.”

IL PROCEDIMENTO PENALE

Qualora la vittima di atti persecutori non volesse limitarsi ad ottenere un formale ammonimento, da parte del Questore, ma volesse ottenere la condanna dello stalker allora dovrà procedere penalmente.

PROCEDIBILITA’ – Lo stalking è reato procedibile in seguito a presentazione di querela o, in alcuni casi, d’ufficio.

Normalmente è punibile in seguito a presentazione a querela che deve essere sporta, pena di decadenza, entro sei mesi dall’ultimo comportamento vessatorio.

Nel caso in cui la vittima di stalking sia un minore o un disabile il reato è procedibile d’ufficio. Perché venga avviato un procedimento d’ufficio è necessario quantomeno procedere con una segnalazione.

Sussiste il reato di stalking se si pongono in essere condotte reiterate di minaccia e di molestie, reati già previsti dal nostro Codice Penale e sanzionati autonomamente (artt. 612 660 Codice Penale)

Se la minaccia o la molestia hanno come conseguenza quella di generare nella vittima “grave stato di ansia o di paura”, “timore fondato per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto” o “cambiamento delle abitudini di vita” allora si ha il reato di stalking (art. 612 bis Codice Penale). Questo, come detto, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi, salvo che il fatto costituisca più grave reato (comma I°). Se si procede in seguito a presentazione di querela la sua remissione non può essere fatta avanti i Carabinieri ma solo avanti il Giudice.

La pena è aumentata (comma II°) se il reato è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa o se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. In questo caso la querela non può essere revocata.

La pena è ulteriormente aumentata, fino alla metà, se la vittima è un minore, una donna in gravidanza, una persona con disabilità o se il fatto è commesso con armi o da persona travisata.

DANNI MORALI – In seguito a rinvio a giudizio, la parte offesa dal reato potrà costituirsi parte civile nel processo penale e chiedere, oltre alla condanna penale dell’imputato, anche il riconoscimento del c.d. danno morale, consistente nell’ “ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato” e nel “patema d’animo o stato d’angoscia transeunte generato dall’illecito”, come definito dalla Corte di Cassazione.

GRATUITO PATROCINIO – La parte civile costituita in giudizio, su istanza,  può essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato, anche in deroga ai limiti di reddito, previsti dalla legge in materia di gratuito patrocinio.

LA PROVA DEL REATO – Per provare lo stalking si possono allegare alla querela copie di lettere, e-mail, tabulati telefonici, testi di sms, oltre che indicare nominativi di persone che possono testimoniare (persone con cui la persona offesa si è confidata), oltre alle certificazioni specialistiche, in ambito clinico, che normalmente vengono acquisite nelle ipotesi di patologie legate alle disfunzionalità o derive dell’organizzazione del lavoro (nell’ambiente lavorativo mobbing, mobbing di genere, molestie sessuali, straining, stress, ecc.).

REATI PIU’ LIEVI – Nel caso in cui non vengano dimostrati gli elementi caratterizzanti il reato (“grave stato di ansia o di paura”, “timore fondato per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto” o “cambiamento delle abitudini di vita”) la condotta potrebbe comunque essere ritenuta illecita e punita come minaccia (art. 612 c.p.) o molestia (art. 660 c.p.), come detto condotte già previste e sanzionate autonomamente dal legislatore.

LA CONDOTTA – Gli atti persecutori possono essere anche del tutto leciti e innocui, se considerati singolarmente (es. semplice telefonata o invio di un mazzo di fiori), ma la loro assillante e ossessiva ripetizione può “trasformarli” in illecito penale. Si specifica infatti che la condotta, perché abbia rilevanza penale, deve essere reiterata, seriale, vale a dire che un singolo episodio non è sufficiente. I comportamenti descritti dalla norma penale devono succedersi nel tempo. La continuazione e reiterazione in un certo lasso di tempo sono infatti elementi costitutivi del reato.