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Marzo

- 2021 -

DIVIETO DI LICENZIAMENTO PER RAGIONI OGGETTIVE NELL’EMERGENZA COVID

Il Tribunale di Ravenna ed il Tribunale di Roma, nelle scorse settimane, si sono pronunciati in merito al divieto di licenziamento per ragione oggettive, introdotto dalla normativa emergenziale Covid-19 (c.d. “Cura Italia”).

Il primo ha ritenuto che detto divieto sia da estendere anche al licenziamento comminato a fronte della sopravvenuta inidoneità alla mansione del lavoratore, poiché tale motivo di recesso rientrerebbe, senza dubbio, nel concetto di ragione oggettiva del recesso. Il Giudice ha quindi dichiarato nullo il licenziamento, con condanna alla reintegrazione.

Il secondo, invece, ha ritenuto che il divieto imposto dalla norma emergenziale sia da estendere anche ai dirigenti, valorizzando la ratio dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020, volto a scongiurare che le conseguenze economiche della pandemia possano scaricarsi sui lavoratori in modo automatico. A parere del Giudice, che ha dichiarato nullo il licenziamento ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro, una diversa interpretazione della norma originerebbe una irragionevole disparità di trattamento, basata sull’inquadramento dei lavoratori.

Prima di analizzare le due sentenze, si riporta per comodità di chi ci legge, il testo alla base delle due pronunce di merito:

Art. 46 – Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo

 1 – A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, gia’ impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresi’ sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

1-bis. Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, puo’, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purche’ contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuita’, senza oneri ne’ sanzioni per il datore di lavoro.

Tribunale di Ravenna, sez. lavoro – Sentenza del 07/01/2021  dr. Bernardi

In seguito a giudizio di inidoneità, espresso dal medico competente, il datore di lavoro licenziava, in piena emergenza sanitaria, il ricorrente per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione, per cui per giustificato motivo oggettivo.

Il ricorrente adiva il Tribunale, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria.

La causa veniva decisa, senza assunzione di prove, sulla base della ratio della norma.

Per l’adito Giudice il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta integra un motivo oggettivo di licenziamento (categoria frammentaria che comprende tutto ciò che non è disciplinare).

Di diverso avviso la difesa datoriale la quale riteneva che il licenziamento in questione non rientrasse nell’ambito della moratoria, stabilita dalla normativa emergenziale scaturita dalla pandemia da Covid-19 (“… il licenziamento oggi avversato non ha natura di licenziamento economico in senso stretto e, soprattutto, occasionato dai fatti di questo periodo […]. Ad avviso di chi scrive, infatti, non si può prescindere da una valutazione dell’applicabilità del divieto tenuto conto del caso specifico, pena – al contrario – una eccessiva, illogica ed indiscriminata compromissione dell’art. 41 Cost., che, invero, dovrebbe essere necessariamente bilanciata dai principi di proporzionalità ed adeguatezza”).

La tesi non è stata accolta dal Giudicante, il quale ha ritenuto che per il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione valgono le stesse ragioni, di tutela economica e sociale, alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.

Il Tribunale ha sottolineato come per il lavoratore, divenuto inidoneo alla mansione, il licenziamento sia delineato come extrema ratiom, quindi evitabile con l’adozione di misure organizzative tali da consentire al ricorrente di continuare a lavorare, presso lo stesso datore, anche eventualmente passando a svolgere mansioni inferiori.

Nell’ottica del legislatore, scrive il Giudice, “solo all’esito del superamento della crisi potrà esservi una attuale e concreta scelta in punto ad organizzazione o riorganizzazione aziendale e, dunque, anche in punto al ripescaggio del lavoratore in questione (si tratta proprio dell’adozione delle misure organizzative come detto previste dall’art. 42 del D. Lgs. n. 81/2008). Conseguentemente il caso di specie rientra appieno nel blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 46 del D.L. n. 18 del 2020”.

Tribunale di Roma, sez. lavoro – Ordinanza del 26/02/2021 dr. Conte

Il caso esaminato dal Tribunale di Roma, riguarda invece il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dirigente, in seguito alla soppressione della sua posizione lavorativa, decisa in ragione di una riorganizzazione, conseguente a calo dell’attività aziendale, a sua volta conseguente alla pandemia Covid-19.

Anche questa vertenza è stata decisa allo stato degli atti ed accolta dal Giudicante il quale ha ritenuto che malgrado le disposizioni emergenziali facessero  “ … riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/66, che potrebbe far pensare altrimenti, in rapporto all’ambito di applicazione della legge 604 quale definito dal relativo art. 10, le disposizioni sopra richiamante debbono ritenersi applicabili anche ai dirigenti per le seguenti ragioni:

1) la “ratio” del “blocco” appare essere evidentemente quella, in un certo senso di ordine pubblico, di evitare in via provvisoria che le pressoché generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro. C’è in un certo senso una compressione temporanea di una libertà/diritto fondati su Cost. 41/1, tendenzialmente destinata a trovare contemperamento in misure di sostegno alle imprese, ed ispirata ad un criterio di solidarietà sociale ex Cost. 2, e 4; non lasciare che il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori. Tale esigenza è certo comune ai dirigenti che anzi sono più esposti a tale rischio stante la maggiore elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (cd. giustificatezza) rispetto a quello posto dall’art. 3 cit. (ex pluris, tra le più recenti, Cass. 34736/2019). Tale circostanza già pone “in limine” un problema di ragionevolezza della loro esclusione in rapporto a Cost. 3; problema rafforzato (si direbbe “raddoppiato”) dal fatto che essi sono invece protetti in caso di licenziamento collettivo (art. 24, co. 1, legge n. 223/91 nel testo novellato dall’art. 16, co. 1, lett. a, legge n.161/2014). Insomma, se è difficile capire perché i dirigenti dovrebbero essere esclusi da un “blocco” dei licenziamenti chiaramente improntato al criterio della preclusione della giustificazione economica, ancor meno risulta comprensibile perché il divieto dovrebbe operare per costoro in caso di licenziamento collettivo e non in caso di licenziamento individuale, a differenza degli altri lavoratori. Il primo divieto, anzi, già offre un dato siginificativo del fatto che il legislatore non abbia in realtà inteso fondare una distinzione basata sullo “status” del lavoro dirigenziale e sulla particolarità di esso.

Né appare comprensibile come una “ratio” di diversificazione possa fondarsi in sé sul diverso regime generale di giustificazione del recesso, posto che la “preclusione” mira proprio ad impedire licenziamenti agevolmente passibili di essere ritenuti altrimenti resi legittimi da difficoltà economiche rese pressoché generalizzate da un contesto di carattere eccezionale;

2) l’art. 3 della legge n. 604/66 definisce (per quanto qui occupa) il concetto di giustificato motivo oggettivo già enunciato in via generale “in limine” dal relativo articolo 1.

La “giustificatezza oggettiva” ne condivide sostanzialmente la natura in una forma attenuta nel rigore (e quindi con un ambito di legittimazione al recesso più ampio), ma non dell’essenza, posto che essa attiene comunque “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso” (come dice l’art. 3). Ciò consente di ritenere che il riferimento della legge all’art. 3 miri ad identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto; funzione che, se il legislatore avesse inteso perseguire, si sarebbe presumibilmente tradotta in una diversa tecnica normativa (soggettiva e non tipologica).”