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Gennaio

- 2021 -

LICENZIAMENTO SENZA PREAVVISO IN SEGUITO A PATTEGGIAMENTO DI CONDANNA LESIONE VINCOLO FIDUCIARIO

E’ possibile licenziare, senza preavviso, il lavoratore che riporti una condanna penale, definitiva, anche per condotta commessa non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato assumono rilievo ai fini della lesione del vincolo fiduciario.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione ritenendo, diversamente dai Giudici dei primi due gradi di giudizio, legittimo il licenziamento disciplinare di un funzionario di Poste italiane (sent. n. 22075/2020) che aveva patteggiato una condanna per violenza privata e molestie telefoniche (fatti commessi nei confronti di una collega di lavoro con la quale aveva intrattenuto una relazione sentimentale).

Il lavoratore non aveva mai informato la società dell’imputazione e nel frattempo era stato promosso a direttore di filiale.

Aperto il procedimento disciplinare, il datore di lavoro richiamava l’art. 56, comma 6, lett. h) del CCNL 2007 dei dipendenti di Poste Italiane che prevede la sanzione espulsiva in presenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per condotta commessa, non in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, quando i fatti costituenti reato possano comunque assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario.

Come detto, i Giudici di primo e secondo grado avevano ritenuto illegittimo il licenziamento, accogliendo la difesa del lavoratore, sottolineando che:

– il lavoratore era stato nel frattempo promosso a direttore di filiale e ciò denotava come la società riponesse piena fiducia nelle sue capacità gestionali e operative e non avesse colto in lui segnali di instabilità caratteriale o psicologica;

– vero che il dipendente aveva taciuto la pendenza del procedimento penale a suo carico, ma il fatto era da considerarsi irrilevante, potendo spiegarsi con il carattere personale della vicenda e con il proposito di mantenere la massima riservatezza sulla vicenda, anche al fine di evitare possibili danni all’immagine aziendale;

– la vicenda peraltro era estranea al contesto territoriale dove il ricorrente si trovava a disimpegnare le sue mansioni al tempo del licenziamento;

– la comune veste dei due protagonisti della vicenda, entrambi dipendenti Poste Italiane, costituiva un mero accidente, atteso che il lavoratore/imputato e la persona offesa non erano legati da alcun rapporto gerarchico.

Concludeva la Corte d’Appello che analoghe considerazioni dovevano essere svolte in ordine al giustificato motivo soggettivo, tenuto conto che la società datrice di lavoro “non aveva dimostrato che dalla condotta del dipendente fossero derivate delle conseguenze tali da compromettere le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa o che fossero idonee ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali.

In merito al patteggiamento la Corte di appello osservava che, nella fattispecie concreta, la condotta di cui alla sentenza di patteggiamento non poteva ritenersi idonea a produrre effetti pregiudizievoli per la prestazione lavorativa o per l’ambiente di lavoro.

La Corte di Cassazione, come detto, ha ribaltato la sentenza ritenendo il licenziamento legittimo tenuto conto di quanto disposto dal CCNL dei dipendenti Poste Italiane.

Nel prevedere l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento nell’ipotesi di “condanna” del dipendente, il contratto collettivo si interpreta nel senso che è sufficiente che sia stata pronunciata, nei confronti del lavoratore, sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., dovendosi ritenere che le parti contrattuali abbiano voluto con tale previsione dare rilievo anche al caso in cui l’imputato non abbia negato la propria responsabilità ed abbia esonerato l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena (Cass. n. 2168 del 2013, n. 3980 del 2016; v. pure, Cass. S.U. 21591 del 2013, n. 30328 del 2017).

E’ stata quindi accolta la tesi difensiva datoriale per cui:

– non poteva essere valorizzato in favore del lavoratore l’elemento della promozione a direttore di filiale, poiché la società datrice di lavoro ignorava, in quel momento, la pendenza del procedimento penale a carico del dipendente. Poiché Poste Italiane nulla sapeva della vicenda giudiziaria pendente, è logicamente evidente che la promozione del lavoratore non poteva essere utilizzata per ipotizzare una acquiescenza datoriale all’esercizio del potere disciplinare e, di conseguenza, non poteva la stessa circostanza costituire un valido argomento da porre a base del ragionamento decisorio;

– era del tutto irrilevante la circostanza che il dipendente e la persona destinataria degli atti persecutori, seppure entrambi dipendenti di Poste Italiane, non fossero all’epoca dei fatti legati da alcun vincolo gerarchico all’interno della società così come il contesto territoriale in cui si svolsero i fatti;

– rilevava il silenzio del dipendente in merito alla pendenza del procedimento penale per evitare possibili danni all’immagine aziendale.